MARANA
Una delle 36 ville del Comune di Montereale, a 890 m. slm, a soli 23 Km dalla città dell’Aquila, Marana costituisce l’ultimo baluardo del comune lungo la Statale 260 verso il capoluogo. Situata in una verdeggiante vallata nel cui centro scorre il fiume Aterno, ricca di boschi di querce e castagneti, circondata da alte montagne, è luogo ideale per gli amanti del paesaggio montano e della quiete. Contrici, Craecocco, la Costa, la Piazza, Caesio e Torrale, questi i rioni che costituiscono il paese, il quale consta di due parti distinte separate dalla strada, le due zone presentano caratteristiche piuttosto diverse, quella orientale è pianeggiante, quella occidentale è in salita; nell’insieme un paesaggio molto pittoresco che sembra aver qualcosa di un villaggio svizzero. Poco sappiamo sull’origine e la storia del paese, le poche ma significative notizie di cui siamo in possesso sono per lo più informazioni frammentarie tramandate di generazione in generazione. La memoria più antica sembra che risalga all’inizio del VI secolo. I primi insediamenti abitativi non si trovavano però nell’attuale sede, bensì disseminati sui colli circostanti, essendo la vallata zona paludosa per lo scolo della « marana » che si trovava a monte della stessa valle.
Il primo documento scritto in cui è nominata Marana risale al 1022 ed è un documento del « Regesto di Farfa » che raccoglie tutte le carte dell’Abbazia di Farfa. in esso si legge che il Castello di Marana è tenuto dai figli di Aldo e di Capone, (nobili che avevano parecchi beni nella zona) insieme a “Tegoria” (cioé Teora) e Noveri. Nel suddetto documento è scritto che il castello di Marana è in possesso delle persone nominate « qui dicitur habere per concambium, sed nos non scimus illud ubi sit », ossia « che dicono di possederlo in seguito ad un cambio di beni, ma noi (cioé i monaci di Farfa) non sappiamo dove sia detto castello ». Che si tratti di Marana è confermato dal fatto che è indicato insieme a Teora e Noveri. In quel periodo Marana era compresa nella Contea Reatina e, più precisamente, nel territorio Novertino, che corrispondeva alla Conca di Montereale, insieme ad Aviano (attualmente non più esistente), Capitignano, Cavagnano, Colle Noveri, Paganica con la Chiesa di S. Rufo, Paterno, Sivignano, Aglioni.
Sempre nel Regesto di Farfa è nominato nell’898 il Casale di Porkule, che è detta essere in territorio Amiternino. Forse esso si trovava nella località, 2 Km a sud di Marana, che ancora oggi si chiama Porcola, e costituiva, in questo caso, l’ultimo villaggio in territorio Amiternino, prima di passare a quello Novertino. Nel documento dell’898 è detto che in Porkule esisteva la chiesa di S. Silvestro e, poco lontano dall’abitato, una torre. Nella Bolla papale del 1153, indirizzata dal Papa Anastasio IV al Vescovo reatino Dodone, e nella quale sono elencate le Pievi, cioé le parrocchie che facevano parte della Diocesi, è nominata la pieve di S. Eutizio di Marana. Altre pievi della zona erano: S. Croce in Borbona, S. Maria in Pantanis (presso Montereale), S. Pietro in Nura (Sivignano) e S. Cosma in Cagnano. Un’altra Bolla fu inviata dal Papa Lucio III al Vescovo di Rieti Bene-detto nel 1182 ed anche in essa vi è, nell’elenco delle pievi, la pieve di S. Eutizio in Marana, e tra i monasteri vi è il monastero di S. Leonardo in Acato (che sarebbe il monastero di S. Leonardo, di cui esistono ancora i ruderi non lontano da Marana).
Nel 1327 l’arciprete della chiesa di S. Eutizio di Marana pagava, per la decima papale, 8 tarini, Nell’elenco di chiese esistenti nel!a Diocesi reatina nel 1398 è nominata la chiesa di S. Eutizio di Marana; da essa dipendono: S. Silvestro de Marana (la costruzione originaria non esisteva più già verso la fine del 1700, ed era fuori del paese, più verso Gabbia), S. Caterina (il Vescovo di Rieti Mons. Marini, che nel 1783 commenta l’elenco del 1398, osserva che ai tempi suoi tale chiesa non esisteva più né si sapeva dove fosse), S. Maria de Castello presso Marana (forse l’odierna S. Maria delle Grazie) e S. Maria de Aviano (il paese di Aviano era poco distante da Montereale). Nell’elenco del 1398 è anche riportato, per conto suo, il Monastero cistercense di S. Leonardo de Atatiis, che è lo stesso che nel 1182 è indicato come S. Leonardo in Acato. In seguito esso fu ricostruito dentro Montereale.
Facendo parte Marana dei territorio di Montereale, ha seguito le vicende storiche dello stesso; per cui fin dal 1127 seguì le sorti del Regno di Napoli, poi fu Signoria di Carlo Martello; successivamente nel 1538 Carlo V concesse « prodote et dotis nomine oc Feudo dotalis » il ducato di Montereale ad Alessandro dei Medici e da questi passò a Margherita d’Austria. Divenne poi patrimonio farneseo quando la stessa andò in seconde nozze al duca Ottavio Farnese, Margherita ebbe un ruolo importante nello sviluppo insediativo del paese, infatti operò la bonifica della « marana » che si trovava a monte della valle, aprendo un varco in località « Castello » e facendo defluire l’acqua nel letto del fiume Aterno. Si narra che detta nobildonna donò a Marana una croce (che si dice d’oro) e che si vuole attribuire al Cellini. Questa croce comunque fa tuttora parte del tesoro di S. Eutizio e si può ammirare ogni anno il giorno 23 Maggio, giorno in cui viene esposta e portata in processione. Nei secolo XVII (dopo cioè il terremoto del 1703) come riporta lo storico Antinori, il territorio di Montereale era diviso in quattro quarti: Quarto di S. Maria, Quarto di S. Giovanni, Quarto di S. Pietro e Quarto di S. Lorenzo. Marana, insieme a Capofano, Vicenne, Corcioni, Piedicolle, Lonaro, Busci, Pelle-scritta e Cesaproba, faceva parte del Quarto di S. Lorenzo, e contava 55 fuochi (famiglie). L’economia del paese è sempre stata prevalentemente agricola, attualmente però grazie allo sviluppo tecnologico che ha facilitato tutte le attività, essa si è notevolmente modificata.
ARTIGIANATO
Quando si parla di artigianato tipico della nostra zona, ci si riferisce purtroppo ad un artigianato oggi quasi completamente scomparso, forse a causa del progresso tecnologico e dell’emigrazione verso le città, che ha costretto generazioni di giovani a trasferirsi laddove c’era possibilità di lavoro. Una delle lavorazioni artigianali più diffuse era costituita dalla produzione di cesti e canestri intrecciati dalle mani espertissime delle nostre nonne, utilizzando i rami (vinci) di alcune piante che tuttora crescono lungo il fiume « veteche ». Con i carretti carichi di cesti, cestini e canestri gli artigiani partivano a notte fonda e portavano le loro mercanzie in tutti i paesi vicini e lontani, spingendosi fino al piano dei Navelli, dove scambiavano con grano, granturco e lenticchie. La lavorazione del cuoio e delle pelli ebbe una notevole importanza fino agli anni trenta, e cioé fino a quando i maestri sellai realizzavano finimenti per carrozze e cavalli, basti da tiro, da lavoro e da maneggio. Con l’evoluzione dei mezzi di trasporto questa attività è praticamente scomparsa.
Un’altra produzione di notevolissimo pregio era rappresentata dalla tessitura al telaio. Particolarmente apprezzata era l’originalità del disegno, che riunendo la tradizione della tessitura e quella del ricamo, offriva splendi figure stilizzate racchiuse entro rombi. I filati che le industriose tessitrici utilizzavano in parte erano prodotti artigianalmente in proprio, numerosi erano infatti i campi di canapa. Dai tessuti ottenuti, oltre che tappeti, si ricavavano anche canavacci e lenzuoli, molti dei quali venivano guarniti con merletti e ricami di pregiatissima fattura. Molto diffusi erano, e lo sono tuttora, i merletti all’uncinetto e i ricami « a punto a giorno » (bellissimo il gigliuccio). E’ vivissima tuttora l’antica tradizione del corredo che la sposa portava in dote costituita da lenzuola, federe e ogni altro genere di biancheria ricamata. Altra produzione artigianale dei nostri nonni è rappresentata dalla lavorazione del rame e del ferro. Tra i prodotti di rame più caratteristici c’era la tipica “conca” per l’acqua, la “cottora” e i bracieri, una volta usati per riscaldare le abitazioni ed oggi molto richiesti come fioriere. La lavorazione del ferro, a differenza di quella del rame, tuttora ancora in uso.
USI E TRADIZIONI
Paese che vai usanze che trovi. Marana di usanze e tradizioni ne conserva ancora molte. Usanze che in altri paesi molto probabilmente sono scomparse ormai da anni o non sono mai esistite.
« IL S. ANTONIO » Il 17 gennaio, giorno di S. Antonio, alle prime luci dell’alba tutti i bambini del paese con bianche bisaccie in spalla, si ritrovano in strada e aspettano insieme, vociando allegramente, che si accendano le luci nelle case e che si schiudano le porte, per iniziare il giro del paese, rievocando un’antica tradizione. In ogni casa di Marana in questo giorno « si sparte il S. Antonio », cioé si distribuisce una certa somma di denaro appunto fra tutti i bambini che passeranno davanti alla porta. Anticamente si usava distribuire a tutti i viandanti mendicanti e no, pane (le « panette »), castagne, frutta secca, o la « paniccia » ed altre cose, in base alla possibilità economica di ciascuna famiglia. Con il passare degli anni sono cambiati doni e viandanti, ma è rimasta l’usanza.
« LA PANICCIA »
Un’altra usanza, collegata ai S. Antonio è quella della a Paniccia », una minestra a base di riso, polenta, brodo di maiale, salsicce, zafferano ed altre spezie, che alcune famiglie di Marana il giorno di S. Antonio usano distribuire a chiunque voglia degustare questo piatto che una volta veniva offerto ai poveri e che oggi è invece una specialità tipica molto ricercata. « I FAONI » o falò, sono dei fuochi che si usava accendere di notte in alcune ricorrenze religiose (S. Emidio, Ascenzione) in ogni rione del paese, facendo a gara a chi realizzava il falò più grande e pia duraturo. Ogni famiglia del rispettivo rione contribuiva al falò offrendo una fascina di legna, e grandi e piccoli si ritrovavano intorno ad esso, facendo festa al suono degli organetti. Oggi a mantenere la tradizione rimane solo qualche nome, ma il « Faone » con il passare del tempo ha perduto un po’ di quel folclore che lo accompagnava. « L’ARROSTO DI NATALE » Un’altra usanza, oggi ormai scomparsa, era rappresentata dall’arrosto di Natale, che non ha niente a che fare con una ricetta gastronomica natalizia, come il nome può far supporre. L’arrosto altro non è che una torcia costituita da pezzi di corteccia di ciliegio essiccati, tenuti insieme da un fil di ferro. La notte di Natale, dopo la messa di mezzanotte, i ragazzi del paese accendevano queste singolari torce e le portavano in giro per le strade, rievocando il cammino dei pastori verso la grotta di Betleem.